Vite dei Santi
i nostri modelli e protettori

Bouquet spirituale:

25 maggio

San Gregorio VII, Papa
San Gregorio VII

San Gregorio VII
Papa e Confessore
(1021-1085)

Tre Papi. Dopo aver salutato durante il Tempo pasquale i due nomi illustri di Leone Magno e di Pio V, c’inchiniamo oggi di fronte a quello di Gregorio VII. Questi tre nomi riassumono l’azione del Papato durante i secoli, dopo l’epoca delle persecuzioni. Mantenere intatta la dottrina rivelata, e la difesa della libertà della Chiesa: ecco la missione divinamente imposta ai successori di Pietro sulla Cattedra Apostolica. San Leone ha sostenuto, con coraggio ed eloquenza, la fede primitiva contro i novatori; san Pio V ha costretto la pretesa riforma ad indietreggiare ed ha strappato la cristianità dal giogo dell’islamismo; san Gregorio VII, posto tra questi due Pontefici nel succedersi del tempo, ha salvato la società dal pericolo maggiore di quanti ne avesse incorsi, facendo rifiorire i costumi cristiani per mezzo della restaurazione della libertà della Chiesa.

Il secolo di ferro. Tra la fine del x secolo ed il principio dell’XI, la Chiesa di Gesù Cristo era in preda ad una delle più terribili prove che abbia mai avuto durante il suo passaggio in questo mondo. Dopo il flagella delle persecuzioni, dopo quello delle eresie, si era giunti a quello della barbarie. L’impulso di civiltà dato da Carlo Magno, si era arrestato al ix secolo, e l’elemento barbaro , piuttosto represso che domato, aveva forzato le dighe. Nelle masse la fede rimaneva ancora viva, ma da sola non poteva trionfare della rudezza dei costumi. Il disordine sociale, che proveniva dall’anarchia che il sistema feudale aveva scatenato in tutta l’Europa, generava mille violenze, e il diritto soccombeva ovunque sotto la forza e la dissolutezza. I Principi non trovavano più un freno nella potenza della Chiesa, poiché Roma stessa, asservita alle fazioni , vedeva troppo spesso assidersi sulla Cattedra Apostolica uomini indegni ed incapaci.

Intanto il secolo xi proseguiva nel suo corso ed il disordine sembrava incurabile. I Vescovadi erano divenuti la preda del potere laico , che li vendeva, ed i principi si preoccupavano soprattutto di trovare nei prelati vassalli disposti a sostenerli con le armi nelle loro contese, o imprese violenti. Sotto un episcopato, per la maggior parte simoniaco, secondo quanto attesta san Pier Damiani, i costumi del basso clero erano caduti in uno stato di deplorevole bassezza; e per colmo di disgrazia, l’ignoranza andava sempre più cancellando anche la stessa nozione del dovere. Sarebbe stata la fine della Chiesa e della società, se la promessa di Cristo di non abbandonare mai la sua opera non fosse stata inviolabile.

La missione di Gregorio VII. Per guarire tanti mali, per fare penetrare la luce in un tale caos, bisognava che Roma si risollevasse dal suo abbassamento e che salvasse, ancora una volta, la cristianità. Era necessario un Pontefice santo ed energico, che sentisse in se stesso quella forza divina che gli ostacoli non arrestano mai; un Pontefice la cui azione potesse essere lunga, e l’impulso abbastanza energico, per trarre i suoi successori nella via che egli avrebbe aperta. Tale fu la missione di Gregorio VII.

La preparazione a Cluny. Come avviene in tutti gli uomini che vivono rettamente presso il Signore, questa missione fu preparata nella santità. Gregorio si chiamava ancora Ildebrando quando andò a nascondere la sua vita nel chiostro di Cluny. Solamente lì, e nelle duemila abbazie confederate sotto il bastone pastorale di questo insigne monastero della Francia, si trovava il sentimento della libertà della Chiesa e la tradizione monastica nella sua purezza; lì, da più di un secolo, veniva preparata la rigenerazione del costume cristiano, sotto la continua direzione di quattro grandi abbati: Oddone, Maieul, Dodilone e Ugo. Ma Dio serbava ancora il suo segreto; e nessuno avrebbe potuto scoprire gli ausiliari della più santa delle riforme in questi monasteri che. uno zelo fervoroso aveva attirato da un capo all’altro dell’Europa, in questa federazione con Cluny, per il solo motivo che esso era il santuario di tutte le virtù claustrali. Ildebrando cercò questo pio asilo, dove sperava almeno di fuggire lo scandalo.

Il consigliere. Sant’Ugo non tardò a scoprire i meriti del giovane italiano, che fu ammesso nella grande abbazia francese. Un vescovo forestiero, un giorno s’incontrò col maestro e col discepolo: era san Brunone di Toul, designato dall’imperatore Enrico III a divenire Pontefice di Santa Romana Chiesa. Ildebrando si commuove alla vista di questo nuovo candidato alla Cattedra Apostolica, di questo papa che la Chiesa Romana non ha eletto, né conosce, mentre è la sola ad avere il diritto di nominare il suo vescovo. Egli osa dire a Brunone che non deve accettare le Chiavi del cielo dalle mani di Cesare, che la coscienza lo obbliga a sottomettersi umilmente all’elezione canonica della città santa. Brunone, che fu poi san Leone IX, accetta umilmente il parere del giovane monaco, e tutt’e due, valicate le Alpi, s’incamminano verso Roma. L’eletto di Cesare divenne l’eletto della Chiesa Romana; ma Ildebrando non riacquistò più la libertà di separarsi dal nuovo Pontefice e, ben presto, dovette accettare il titolo e il ministero di Arcidiacono della Chiesa Romana. Questo incarico eminente l’avrebbe presto elevato alla cattedra apostolica, se Ildebrando avesse avuto un’ambizione diversa da quella di spezzare i ferri sotto i quali gemeva la Chiesa e di preparare la riforma della cristianità. Ma, quest’uomo di Dio, preferì servirsi della sua influenza per portare ad assidersi, sulla cattedra di Pietro, attraverso la via canonica e al di fuori del favore imperiale, una serie di Pontefici dalla condotta integra, e disposti ad usare della loro autorità per l’estirpazione degli scandali. Dopo san Leone IX, furono eletti successivamente Vittore II, Stefano IX, Nicolò II e Alessandro II, tutti degni della più alta stima.

Il Papa e l’Imperatore. Ma colui che sotto cinque Papi era stato l’anima del loro pontificato, dovette finalmente consentire a sua volta a cingere la tiara. Quel grande cuore si commosse nel presentimento delle terribili lotte che l’attendevano; ma la sua resistenza , i suoi tentativi per sottrarsi al pesante fardello della cura di tutte le Chiese restarono infruttuosi; ed il nuovo Vicario di Cristo fu rivelato al mondo sotto il nome di Gregorio VII. Egli doveva realizzare completamente la grandiosità di questo nome che significa Vigilanza.

La forza bruta si ergeva di fronte a lui, incarnata nella persona di un principe audace e scaltro, macchiato di molte colpe, che, a guisa di aquila rapace, teneva nella stretta la Chiesa, divenuta sua preda. Negli stati dell’impero, non si sarebbe tollerato nessun vescovo che non avesse ricevuto, con l’anello e il bastone pastorale, l’investitura di Cesare. Tale era Enrico di Germania. Seguendo il suo esempio, anche gli altri principi procedevano nello stesso modo, e annientavano così ogni libertà nelle elezioni canoniche. La doppia piaga della simonia e dell’incontinenza, continuava ad incrudelire sul corpo ecclesiastico. I pii predecessori di Gregorio avevano fatto regredire il male, mediante generosi sforzi, ma nessuno di loro si era sentito l’energia di misurarsi, corpo a corpo, con Cesare, la cui azione disastrosa fomentava ogni genere di corruzione. Una tale missione, con tutti i suoi pericoli, con tutte le sue angoscie, era riservata a Gregorio: ed egli non venne meno al compito.

Tuttavia i tre primi anni del suo pontificato furono abbastanza pacifici. Gregorio fece proposte paterne ad Enrico. Nella corrispondenza con questo giovane principe, cercò di fortificarlo contro se stesso, contando su speranze che i fatti vennero a smentire troppo presto; e colmò di prove di fiducia e di tenerezza il figlio di un imperatore che aveva ben meritato dalla Chiesa. Enrico pensò che era meglio contenersi, per qualche tempo, di fronte ad un papa di cui conosceva la rettitudine; ma poi la diga cedette sotto l’impero del torrente , e l’avversario del potere spirituale si rivelò in lui completamente. La vendita dei vescovadi e delle abbazie ricominciò a profitto di Cesare. Gregorio colpì di scomunica i simoniaci, ed Enrico, affrontando con audacia le censure della Chiesa , seguitò a mantenere, nelle loro sedi, uomini risoluti a seguirlo in tutti gli eccessi.

Il Papa allora indirizzò al principe un avvertimento solenne, ingiungendogli di staccarsi da quegli scomunicati, sotto pena di vedere ricadere anche su di lui i fulmini della Chiesa. Enrico, che aveva ormai gettato la maschera, si riprometteva di non tenere in nessun conto la minaccia del Pontefice, quando improvvisamente, la rivolta della Sassonia, di cui numerosi elettori dell’Impero abbracciavano la causa, viene a preoccuparlo per la corona. Egli intuisce che, in quel momento, una rottura con la Chiesa può divenirgli fatale. Lo vediamo allora rivolgersi umilmente a Gregorio, sollecitandone l’assoluzione, e facendo abiura della sua passata condotta tra le mani di due legati, mandati in Germania dal Pontefice. Ma appena il monarca ribelle si vede per un momento vincitore della rivolta sassone, rincomincia la lotta contro la Chiesa. In un’assemblea di vescovi, degni di lui, osa proclamare la deposizione di Gregorio. Ben presto l’Italia lo vede arrivare alla testa delle sue truppe, e la sua venuta dà, ad una folla di prelati, il segnale della rivolta contro un papa che non è disposto a sopportare l’ignominia della loro vita.

La scomunica. È allora che Gregorio, depositario di quelle chiavi che hanno il potere di tutto legare o sciogliere nel cielo e sulla terra, pronuncia la terribile sentenza che dichiara Enrico privato della corona, ed i suoi sudditi esonerati del giuramento di fedeltà alla sua persona. Il Pontefice vi aggiunge un’anatema anche più temibile per i principi infedeli: li dichiara esclusi dalla comunione della Chiesa. Gregorio, fattosi così come un bastione di difesa della società cristiana minacciata da tutte le parti, attira sopra di sè la reazione di tutte le cattive passioni; e l’Italia è lungi dall’offrirgli quelle garanzie di fedeltà, sulle quali egli avrebbe avuto diritto di contare. Nella penisola Cesare aveva diversi principi in suo favore, ed i prelati simoniaci lo consideravano come il loro difensore contro la spada di Pietro. Era dunque da prevedersi che, ben presto, Gregorio non avrebbe più dove poggiare il piede in tutta l’Italia; ma Dio, che non abbandona la Chiesa, aveva suscitato un difensore della sua causa. In quel momento la Toscana e parte della Lombardia riconoscevano come sovrana la contessa Matilde. Questa nobildonna si leva alla difesa del Vicario di Dio; mette a disposizione della Sede Apostolica le sue ricchezze e i suoi eserciti; ciò finché vivrà; e, prima di morire, lega i suoi domini al Principe degli Apostoli ed ai suoi successori.

Canossa. Non ostante i successi, Enrico ebbe dunque a fare i conti con Matilde. Questa principessa, la cui influenza pesava in Italia, poté sottrarre il generoso Pontefice al furore di lui. Con la sua protezione, Gregorio arrivò sano e salvo a Canossa, fortezza inespugnabile presso Reggio. In quello stesso momento, la fortuna di Enrico sembrò vacillare. La Sassonia rialzava la bandiera della rivolta, e più di un feudatario dell’impero si alleava con i ribelli per annientare il tiranno , che la Chiesa aveva, poco prima, messo al bando della cristianità. Enrico, per la seconda volta, ebbe paura e la sua anima, altrettanto perfida che vile, non indietreggiò davanti allo spergiuro. Il potere spirituale ostacolava i suoi piani sacrileghi: egli osò credere che, offrendogli una soddisfazione passeggera, avrebbe potuto fin dall’indomani rialzare la testa. Lo si vide presentarsi, a piedi nudi e senza scorta, a Canossa, vestito da penitente, e sollecitare con lacrime false, il perdono delle colpe. Gregorio ebbe compassione del suo nemico, per il quale Ugo di Cluny e Matilde intercedevano ai suoi piedi. Tolse la scomunica e reintegrò Enrico nel grembo della Chiesa; ma non giudicò ancora opportuno di revocare la sentenza, con la quale egli l’aveva privato dei diritti regali. Il Pontefice annunciò solamente la stia intenzione di recarsi alla dieta che doveva tenersi in Germania, di volersi rendere conto delle accuse che i principi dell’Impero avanzavano contro Enrico, e di decidere, allora, secondo giustizia.

Enrico accettò tutto, prestò giuramento sul Vangelo, e raggiunse il suo esercito. La speranza gli rinasceva nel cuore, man mano che si allontanava da quella temibile fortezza, tra le cui mura, aveva dovuto sacrificare, per un istante, il suo orgoglio e la sua ambizione. Egli contava sull’appoggio delle cattive passioni, e il calcolo fino ad un certo punto non fu errato. Era un uomo che doveva finire miseramente, ma Satana aveva troppo interesse nel suo successo, per non venirgli in aiuto.

Intanto nella Germania sorgeva un rivale contro Enrico: Rodolfo , duca di Svezia, chiamato alla corona da una dieta di elettori dell’Impero. Gregorio, fedele ai suoi principi di rettitudine, rifiutò, dapprima, di riconoscere l’eletto, anche se il suo attaccamento alla Chiesa e le sue nobili qualità lo rendevano particolarmente raccomandabile. Il Pontefice persisteva nel suo progetto di prendere conoscenza , nell’assemblea dei principi e della città della Germania, delle accuse rivolte contro Enrico, di ascoltare lui stesso, e di porre fine alle discordie, pronunciando un imparziale giudizio. Rodolfo insistette presso il Pontefice per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti; Gregorio, che pur lo amava, ebbe il coraggio di resistere alle sue richieste, e di rimettere l’esame della sua causa a quella dieta che Enrico, con giuramento, aveva accettato a Canossa, ma di cui temeva tanto i risultati. Trascorsero tre anni, durante i quali la pazienza e la moderazione del Pontefice furono costantemente messe alla prova dagli indugi di Enrico e dal suo rifiuto di garantire la sicurezza della Chiesa. Finalmente il Pontefice, nell’impossibilità di mettere termine alle contese armate che insanguinavano la Germania e l’Italia, avendo costatato la cattiva volontà di Enrico e il suo spergiuro, lanciò di nuovo la scomunica contro di lui, e, in un concilio tenuto a Roma, rinnovò la sentenza, per mezzo della quale l’aveva dichiarato privo della corona. Nello stesso tempo Gregorio riconosceva l’elezione di Rodolfo e accordava la benedizione Apostolica ai suoi fautori.

Lo scisma. La collera di Enrico salì al colmo, e la sua vendetta non ebbe più misura. Tra i prelati italiani maggiormente devoti alla sua causa, Guiberto, arcivescovo di Ravenna, era il più ambizioso ed il più compromesso presso la Sede Apostolica. Enrico fece di questo traditore un antipapa, sotto il nome di Clemente III. Questo falso Pontefice non mancò di avere partigiani e lo scisma venne ad aggiungersi alle altre calamità che già pesavano sulla Chiesa. Era uno di quei momenti terribili, in cui, secondo l’espressione di san Giovanni, «è stato concesso alla bestia di far la guerra ai santi e di vincerli» (Apoc. 11, 7). Improvvisamente la vittoria arride al Cesare. Rodolfo rimane ucciso durante una battaglia in Germania, e le truppe di Matilde subiscono una disfatta in Italia. Enrico non ha più che un desiderio: quello di entrare a Roma, scacciarne Gregorio e intronizzare il suo antipapa sulla Cattedra di san Pietro.

La sofferenza del Papa. In mezzo a questo cataclisma, dal quale la Chiesa dovrà nondimeno uscire purificata ed affrancata, quali erano i sentimenti del nostro santo Pontefice? Li descrive egli stesso, in una lettera indirizzata a sant’Ugo di Cluny. «Tali sono, egli dice, le angosce alle quali siamo in preda, che quegli stessi che vivono con noi, non soltanto non possono più sopportarle, ma non ne sostengono neppure più la vista. Il santo re Davide diceva al Signore: “All’affollarsi de’ miei interni affanni, le tue consolazioni mi deliziano l’anima” (Sai. 93, 19); ma per noi, molto spesso, la vita è una noia e la morte un voto ardente. Se accade che Gesù , il dolce consolatore, vero Dio e vero uomo, si degni tendermi la mano, la sua bontà rende la gioia al mio cuore afflitto; ma per poco che egli si ritiri, la mia perturbazione giunge all’eccesso. In quel che dipende da me, muoio continuamente; in ciò che viene da lui , a momenti io vivo. Se le mie forze cedono del tutto, io grido dicendogli con voce gemente: “Se imponesti un fardello così pesante a Mosè ed a Pietro, mi pare che ne sarebbero sopraffatti. Cosa può succedere di me, che sono niente, in confronto a loro? Tu, dunque, Signore, non devi fare che una cosa: governare tu stesso con il tuo Pietro il pontificato che mi è imposto; altrimenti mi vedrai soccombere; ed il pontificato sarà ricoperto di confusione nella mia persona”.

Progetto per una crociata. Questo grido di dolore che sfugge dall’anima del Pontefice, ne rivela tutto il suo carattere. Lo zelo per i costumi cristiani che non possono conservarsi con la libertà della Chiesa, è il movente di tutta la sua vita. Esso solamente aveva potuto fargli affrontare quella situazione terribile , dalla quale egli non doveva raccogliere, in questo mondo, che i dispiaceri più cocenti; e tuttavia Gregorio era quel padre della cristianità che, precorrendo i suoi successori, aveva concepito, fin dai primi anni del suo pontificato, la grande e coraggiosa idea di ricacciare l’islamismo fino in Oriente , e di spezzare il giogo dei cristiani, da esso oppressi, scendendo contro i Saraceni.

L’Azione universale. Abbiamo parlato poco fa, del progetto di una crociata, che più tardi fu di per sè sufficiente ad immortalare Urbano II; ma, quante opere diverse, quanti interventi pastorali, in tutto il mondo cristiano, che fanno dei dodici anni di questo pontificato, una delle epoche in cui il papato sembra avere spiegato la maggiore attività e vigilanza! Nella sua vasta corrispondenza, Gregorio non si limita a dirigere gli affari della Chiesa nell’Impero, in Italia, in Francia, in Inghilterra, nella Spagna; ma sostiene le giovani cristianità della Danimarca, della Svezia, della Norvegia; l’Ungheria, la Boemia, la Polonia, la Serbia, la stessa Russia, ricevono le sue lettere colme di sollecitudine. Nonostante la rottura del vincolo comune tra Roma e Bisanzio, il Pontefice non tronca i suoi interventi e vorrebbe arrestare lo scisma che trascina la Chiesa greca fuori strada. Sulla costa d’Africa la sua vigilanza sostiene ancora tre sedi vescovili che hanno sopravvissuto all’invasione saracena. Con lo scopo di unificare la cristianità latina, rafforza i vincoli della preghiera pubblica, abolendo nella Spagna la liturgia gotica, e facendo arretrare al di là della frontiera di Boemia la liturgia di Bisanzio che stava per invaderla. Quale carriera per un solo uomo! ma anche quale martirio era riservato a questo gran cuore! Dobbiamo seguire la relazione di tutte le prove subite dal nostro Pontefice. La Chiesa e la società dovevano essere salvate per mezzo suo; ma, come il Maestro, egli «berrà l’acqua dal torrente; per tener alto il capo» (Sai. 109, 7).

L’invasione di Enrico IV. Enrico marcia sulla città santa, insieme al falso vicario di Cristo. Un incendio, acceso dalla sua mano sacrilega, minaccia di divorare il quartiere del Vaticano; Gregorio benedice il suo popolo smarrito e subito le fiamme indietreggiano e si spengono. Per un momento l’entusiasmo s’impadronisce dei Romani, così spesso ingrati verso il Pontefice che è, per se stesso, la vita e la gloria di Roma. Enrico, già preparato a compiere il sacrilegio, esita e trema. Lascerà cadere nella polvere l’ignobile fantasma che ha voluto opporre al vero Papa; non domanda più che una cosa ai Romani: che Gregorio consenta a dargli la sacra unzione, ed egli, Enrico di Germania, d’ora in avanti imperatore, si dimostrerà figlio devoto della Chiesa. Questa preghiera viene trasmessa a Gregorio da tutta la città. « Conosco troppo la furberia del re – risponde il nobile Pontefice che egli dia prima soddisfazione a Dio ed alla Chiesa che ha calpestato: potrò allora assolverlo nel suo pentimento, e porre sulla sua testa di convertito, la corona imperiale ». Le istanze dei Romani non poterono ottenere altra risposta dall’inflessibile custode dei diritti della cristianità. Enrico stava per allontanarsi, quando improvvisamente la popolazione incostante, conquistata da infami proventi giunti da Bisanzio (poiché tutti gli scismi si coalizzano contro il papato) si distacca da colui che è suo re e suo padre, e viene a deporre le chiavi della città ai piedi del tiranno, che porta loro l’asservimento delle anime. Gregorio si vede allora ridotto a cercare un asilo nella fortezza di Castel sant’Angelo.

I Normanni saccheggiano Roma. Da quella fortezza egli poté udire le empie vociferazioni del corteo che conduceva Enrico alla Basilica Vaticana , dove l’antipapa lo aspettava alla Confessione di san Pietro. Era la domenica delle Palme de! 1085. Il sacrilegio fu consumato. La vigilia, Guiberto aveva osato sedersi sul trono della Basilica Lateranense. E poi, sotto le palme trionfali portate in onore di Cristo, di cui Gregorio era il Vicario, si vide l’intruso porre sulla testa del Cesare scomunicato la corona dell’Impero cristiano; ma Dio preparava chi avrebbe vendicato la Chiesa. Nel momento in cui il Pontefice era sempre più stretto dall’assedio alla fortezza che gli serviva da rifugio e che sembrava avesse tutto da temere dal furore del suo nemico , a Roma improvvisamente, risuonò un grido di guerra per l’arrivo del valoroso capo dei Normanni, Roberto il Guiscardo. Questo guerriero, era accorso per mettere le sue armi al servizio del Pontefice assediato, e per liberare Roma dal giogo tedesco. Il falso Cesare e l’antipapa sono presi da subitaneo panico; l’uno e l’altro prendono la fuga, e la città spergiura espia negli orrori d’un saccheggio spaventoso la colpa del suo odioso tradimento.

L’esilio. Il cuore di Gregorio si sentì oppresso dal disastro del suo popolo. Impotente a contenere la rabbia devastatrice dei barbari, che non seppero limitarsi alla liberazione del Pontefice, ma dettero sfogo a tutta la loro cupidigia nella città che avrebbero dovuto castigare e non rovinare; minacciato dal ritorno di Enrico che contava sul risentimento dei Romani e si preparava a sostituire i Normanni, quando avessero saziato la loro cupidigia, Gregorio desolato uscì da Roma e, scuotendo la polvere dai suoi calzari, andò a chiedere asilo a Monte Cassino, per passare qualche ora in questo santuario del Patriarca dei monaci. Là dovette presentarglisi alla memoria il contrasto tra i giorni tranquilli della sua gioventù, trascorsa al riparo del chiostro, e gli uragani dai quali la sua carriera apostolica fu incessantemente agitata. Errante, fuggitivo, abbandonato da tutti, salvo che dal fior fiore delle anime fedeli e devote, egli proseguiva nella sua dolorosa passione; ma il Calvario, per lui, non era più molto lontano, ed il Signore non doveva tardare a riceverlo per concedergli il riposo dei suoi santi. Prima di discendere dal sacro monte, si manifestò nuovamente un fatto meraviglioso accaduto già altre volte. Mentre Gregorio all’altare celebrava il santo Sacrificio, apparve improvvisamente, posata sulla sua spalla, una bianca colomba che gli parlava all’orecchio. Non fu difficile, a questo esplicito simbolo, riconoscere l’azione dello Spirito Santo che dirigeva e governava i pensieri e gli atti del santo Pontefice.

L’agonia a Salerno. Si era nei primi mesi dell’anno 1085. Gregorio si recò a Salerno, ultima stazione della sua vita agitata. Le forze l’abbandonavano sempre di più. Nondimeno volle far lui stesso la dedicazione della Chiesa dell’evangelista S. Matteo, il cui corpo riposava in quella città; e, con fievole voce, diresse ancora una volta al popolo la sua parola. Poi, ricevuto il Corpo e il Sangue del Salvatore, fortificato da questo potente viatico, riprese il cammino verso la sua dimora, e si distese su quel letto, da cui non doveva più rialzarsi. Immagine commovente del Figlio di Dio sulla croce, come lui spogliato di tutto e abbandonato dalla maggior parte dei suoi, gli ultimi pensieri furono per la santa Chiesa, che lasciava nella vedovanza. Indicò a qualche cardinale e vescovo che lo circondava i nomi di coloro, tra le mani dei quali avrebbe visto con soddisfazione passare la sua laboriosa successione: Desiderio, Abbate di Montecassino, che, dopo di lui, fu Vittore III; Ottone di Chatillon, monaco di Cluny, che fu, dopo Vittore, Urbano II; ed il fedele legato Ugo de Die, che Gregorio aveva creato arcivescovo di Lione. S’interrogò il Pontefice agonizzante sulle sue intenzioni relative ai numerosi colpevoli che egli aveva dovuto colpire con la spada della scomunica. E per questo ancora, come Cristo sulla croce, egli ebbe misericordia e giustizia: « Salvo, egli disse, il re Enrico, e Guiberto, l’usurpatore della Sede Apostolica, come quelli che favoriscono la loro ingiustizia e la loro empietà, assolvo e benedico tutti coloro che hanno fede nel mio potere, essendo quello stesso dei santi Apostoli Pietro e Paolo ». Tornandogli alla mente il ricordo della pia contessa Matilde, affidò questa figlia, devota di santa Romana Chiesa, alle cure del coraggioso Anselmo di Lucca, rammentando così, come nota il biografo di questo santo vescovo, il dono che Gesù morente fece di Maria a Giovanni, il discepolo prediletto. Trent’anni di lotte e di vittorie furono, per l’eroica contessa, il prezzo di questa benedizione suprema.

La morte. La fine era imminente; ma la sollecitudine del padre della cristianità sopravviveva ancora in Gregorio. Chiamò, uno dopo l’altro, gli uomini generosi che circondavano il suo giaciglio, e fece loro giurare, tra le sue fredde mani, di non riconoscere mai i diritti del tiranno, finché non avesse reso soddisfazione alla Chiesa. Raccolse le sue ultime forze per intimare a tutti una solenne proibizione di riconoscere come Papa colui che non fosse stato eletto canonicamente e secondo le regole dei santi Padri. Poi, raccogliendosi in se stesso, e accettando la divina volontà sulla sua vita di Pontefice, che non era stata che un continuo sacrificio, disse: «Ho amato la giustizia ed ho odiato l’iniquità; è per questo che muoio in esilio».

Uno dei vescovi che era presso di lui, rispose con rispetto: «Voi non potete, signore, morire in esilio, voi che, tenendo il posto di Cristo e dei Ss. Apostoli avete ricevuto in eredità le nazioni ed avete il possesso di tutta quanta la terra».

Parole sublimi, che Gregorio non poté più sentire; poiché la sua anima era volata al cielo e, in quel momento, riceveva la corona dei martiri.

Il trionfo. Gregorio era dunque vinto, come Cristo stesso lo fu dalia morte. Ma il trionfo su di essa non mancò al discepolo, come non era mancato al Maestro. La cristianità, decaduta in tante maniere , si risollevò in tutta la sua dignità; e si può dire che un pegno di questa risurrezione fu dato dal cielo nello stesso dì in cui Gregorio, a Salerno, esalava l’ultimo respiro. In quel medesimo giorno, venticinque maggio 1085, Alfonso VI entrava vittoriosamente a Toledo, e piantava la croce sulla città riconquistata, dopo quattro secoli di schiavitù sotto il giogo saraceno.

Ma alla Chiesa così oppressa occorreva un continuatore dell’opera di Gregorio, ed il Dio di cui fu il vicario non glielo rifiutò. Il martirio del grande Pontefice fu come una semenza per altri papi degni di lui. Allo stesso modo che egli aveva preparato i suoi predecessori, così può dirsi che procedettero da lui i suoi successori; e nelle relazioni dei fasti del papato, in nessun’altra epoca troviamo una serie di nomi più gloriosi di quella che va da Vittore III, successore immediato di Gregorio, a Bonifacio Vili, col quale rincominciò, per lunghi secoli, il martirio che aveva subito il nostro grande eroe. La sua anima si era appena liberata dalle prove di questa valle di lacrime, che già si dichiarava la vittoria. I nemici della Chiesa erano abbattuti, la soppressione delle investiture spegneva la simonia, ed assicurava l’elezione canonica dei Pastori; la legge sacra della continenza del clero riprendeva da per tutto il suo impero.

Giudizi sull’opera di San Gregorio. è stato benedetto dai veri figli della Chiesa, la sua missione era troppo bella e troppo coraggiosamente adempiuta, perché non attirasse sopra di lui l’odio dell’inferno. Ora, ecco ciò che il principe di questo mondo (Gv. 12, 31), nella sua rabbia, escogitò contro di esso. Non contento di aver fatto di Gregorio un oggetto di abominazione per gli eretici, questi pervennero a renderlo odioso per i falsi cattolici, imbarazzante per i mezzi-cristiani. Nonostante il giudizio della Chiesa, che lo aveva elevato al culto degli altari, per un pezzo questi ultimi ostentarono di chiamarlo insolentemente Gregorio VII. Il culto ne fu proscritto da governi che ancora si dicevano cattolici; e fu proibito con editti episcopali. Il suo pontificato ed i suoi atti furono accusati come contrari alla religione cristiana dal più eloquente dei nostri sacri oratori. Vi fu un tempo in cui le righe che consacriamo a questo santo Papa, in un libro destinato ad aumentare nei fedeli l’amore e l’ammirazione per gli eroi della santità che la Chiesa offre al loro culto, avrebbero attirato sopra di noi la vendetta delle leggi. Le lezioni dell’Officio di oggi furono soppresse dal Parlamento di Parigi nel 1729, con proibizione di servirsene, sotto pena di sequestro della rendita del beneficio ecclesiastico. Queste barriere sono cadute, questi scandali sono cessati. In seguito al ripristino della Liturgia romana nella Francia, ogni anno il nome di S. Gregorio VII è proclamato nella nostra Chiesa, gli viene resa pubblicamente quella lode, con la quale dobbiamo onorare i santi, ed il divino Sacrificio è offerto a Dio per la gloria di un Pontefice cosi illustre.

Era tempo, per l’onore della Francia, che tale giustizia fosse resa a chi la merita. Quando già da un pezzo si sentono gli storici ed i pubblicisti protestanti della Germania colmare di elogi colui nel quale riconoscono l’eroico difensore dei diritti della società umana, anche se ai loro occhi egli non può essere che un semplice grande uomo; quando i governi, ridotti agli estremi dal dilagare sempre più imperioso del principio democratico, non hanno più agio di cedere alle loro vecchie gelosie contro la Chiesa; quando l’Episcopato si stringe sempre più saldamente attorno alla Cattedra di san Pietro , centro di vita, di luce e di forza: nulla è più naturale che vedere il nome immortale di san Gregorio VII risplendere di una nuova gloria, dopo l’eclissi che l’aveva così a lungo nascosto agli sguardi di un numero troppo grande di fedeli. Che questo nome glorioso resti, dunque, sino alla fine dei secoli, come uno degli astri più fulgidi del Tempo pasquale, e che egli riversi sulla Chiesa dei nostri giorni l’ascendente salutare che diffuse su quella del medio evo.

Lode. Le nostre gioie pasquali si sono accresciute del tuo trionfo, o Gregorio, poiché riconosciamo in te l’immagine di colui che, per mezzo della sua gloriosa Risurrezione annunciata a tutto l’universo , ha risollevato il mondo che ricadeva su se stesso. Il tuo pontificato era stato preparato dal disegno della divina Sapienza quale era di rigenerazione per la società soccombente sotto la forza della barbarie. Il tuo coraggio, basato sulla fiducia nella parola di Gesù, non indietreggiò di fronte ad alcun sacrificio. La tua vita sulla Fede Apostolica non fu che una lunga battaglia; e per aver amato la giustizia e odiato l’iniquità dovesti morire in esilio. Ma in te si compiva l’oracolo del Profeta, come sul Maestro divino: « Poiché ha dato la sua vita in espiazione, godrà di una discendenza longeva » (Is. 53, io). Una serie gloriosa di trentasei papi si avanza nella via che aprì il tuo sacrificio; grazie a te, la Chiesa tornò ad essere libera e la forza s’inchinò davanti al diritto. Dopo questo trionfale periodo, la guerra le è stata nuovamente dichiarata, ed essa dura ancora. I Principi sono insorti contro il potere spirituale; hanno scosso il giogo del vicario di Dio, ed hanno declinato quaggiù il controllo di ogni autorità. I popoli, a loro volta, si sono sollevati contro un potere che non si riallacciava più al cielo con un vincolo visibile e sacro; e tale doppia insurrezione oggi riduce agli estremi la società.

La libertà e la forza. Questo mondo appartiene a Gesù Cristo, «Re dei re. Signore dei signori» (I Tim. 6, 15); a lui, Uomo-Dio, «fu dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt. 28, 10). Chiunque insorge contro di esso, re o popolo, sarà spezzato, come lo fu quello ebreo che, nel suo orgoglio, esclamava: «Non vogliamo che costui regni sopra di noi » (Le. 19, 14). Gregorio, prega per questo mondo che tu hai salvato dalla barbarie, e che é prossimo a ricadervi. Gli uomini del nostro tempo non parlano che di libertà; é in nome di questa pretesa libertà ch’essi hanno dissolto la società cristiana; e la forza é il solo mezzo che resti loro per mantenere un po’ d’ordine in seno a tanti elementi nemici. Tu hai trionfato su di essa, hai ristabilito i diritti dello Spirito; per te era stata riconosciuta la libertà dei figli di Dio, la libertà del bene, che regnò durante vari secoli. Generoso Pontefice, vieni in aiuto di questa Europa che la tua salda mano preservò un tempo dalla rovina imminente. Placa dolcemente Cristo, che gli uomini bestemmiano, dopo averlo espulso dal suo dominio, come se egli non dovesse rientrarvi trionfante nel giorno dei suoi giudizi. Implora la sua clemenza per tanti cristiani che sono stati sedotti e trascinati da sofismi assurdi, da ciechi pregiudizi, da una educazione perfida, da parole altisonanti e mal definite, che chiamano cammino del progresso quello che li allontana sempre più dall’unico fine che Dio si è proposto creando l’uomo e l’umanità.

Preghiera per la Chiesa.

Da quel soggiorno di pace dove tu riposi dopo tante lotte, volgi uno sguardo, o Gregorio, sulla santa Chiesa che prosegue nella sua penosa via, attraverso mille difficoltà. Tutto è contro di essa: gli avanzi delle antiche leggi, ispirate dalla reazione della forza contro lo spirito, gli allettamenti dell’orgoglio popolare che persegue accanitamente tutto ciò che gli sembra contrario all’uguaglianza dei diritti, la recrudescenza dell’empietà, che ha capito che bisogna calpestare la Chiesa per raggiungere Iddio. In mezzo a questa tempesta, la rocca che sostiene il seggio immortale sul quale tu hai tenuto il posto di Pietro, é battuta da onde furiose. Prega per il vicario di Dio, veglia su quella città santa che fu tua sposa sulla terra. Sventa i perfidi piani del nemico, rianima di zelo i figli della Chiesa, affinché, con il loro coraggio e la loro generosità, continuino a venire in aiuto alla più sacra delle cause.

Preghiera per l’episcopato.

Prega, o Pontefice, per l’ordine episcopale, la cui sorgente si trova nella sede apostolica. Fortifica coloro che ricevettero la sacra unzione del Signore, nella lotta che devono sostenere contro la tendenza di una società che ha espulso Cristo dalle sue leggi e dalle sue istituzioni. Che essi siano investiti dalla forza dell’alto , integri nella confessione dell’antica dottrina, solleciti a premunire i fedeli esposti a tante seduzioni in questo fatale naufragio della verità e del dovere. In un tempo come il nostro, la forza della Chiesa non risiede più che nelle anime; i suoi appoggi esteriori sono scomparsi quasi dappertutto. Il divino Spirito, la cui missione è quella di sostenere quaggiù l’opera del Figlio di Dio, l’assisterà fino all’ultimo giorno; ma, quali strumenti suoi, egli vuole uomini staccati dalle preoccupazioni della vita presente, rassegnati, se ve ne è bisogno, all’impopolarità, risoluti a tutto affrontare, per proclamare l’immutabile insegnamento della suprema Cattedra. Oggi, grazie alla divina misericordia, nella Chiesa sono numerosi quei Pastori conformi alle intenzioni di colui che san Pietro chiama «il Principe dei pastori » (I Piet. 5, 4). Prega affinchè tutti, seguendo il tuo esempio, amino la giustizia e odino l’errore; che essi non temano nè l’esilio , nè la persecuzione, nè la morte; poiché « non v’è discepolo da più del maestro » (Mt. 10, 24).

Dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico, Il Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959

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